Riorganizzare i ricordi

La pioggia lenta, fina
di una giornata uggiosa di mezz’inverno
ammorbidisce e rimesta i ricordi.

L’accarezzarsi delle mani,
i corpi protesi in avanti, quasi dolcemente avvinghiati
di quella coppia che vedemmo,
per cui immaginammo accenti stranieri
e poi ridemmo, scoprendolo come il nostro.

Ricordi il rossore nelle gote di lei?
Quel dolce imbarazzo, prima cercato e di lì a poco scacciato?
Fui solo io a desiderare fosse uno specchio?

Passano i giorni,
interi di parole taciute
soppresse nell’eco dei nostri silenzi,
rimpiazzate da frivoli scampoli di conversazioni gettate lì un po’ a casaccio,
quasi temendo che quel sottile filo che ci lega possa spezzarsi,
se non minimamente alimentato.

E poi girare fra i mercatini cercando un regalo,
correndo con lo sguardo da una parte all’altra,
immaginando non tanto quale sia il migliore
ma quale il più giusto.
Vederli tutti, apprezzarne pochi
per non sceglierne neppure uno,
frenato dal timore che dica troppo, troppo presto.

Fermarsi davanti alla vetrina di una gioielleria,
immaginarti con quella collana di pietre colorate,
della stessa luce del il tuo sorriso migliore
lasciando che la fantasia mi porti a giorni mai scritti,
ma profondamente desiderati.

Ah, il desiderio!
Macigno nel fiume della vita,
che per quanto grande,
raramente ne modifica il corso.

Sempre

Discorsi troppo grandi da pronunciare
se la testa non segue al ritmo del cuore
ma si fa scudo per proteggerlo.

Discorsi così grandi
eppure fatti di semplici, piccole
parole
lì in fila,
una
dopo
l’altra,
che si nascondono per imbarazzo o forse paura
ma poi riecheggiano solitarie e rumorose nella testa,
quando non servono più a nulla
se non ad alimentare ansie e pensieri.

Assordanti, confuse, ripetute
sognanti, lancinanti, tristi, allegre
dall’inizio alla fine e poi daccapo.

È una sensazione strana,
una separazione profonda, netta
tra due metà dello stesso io,
in bilico fra il battere ed il levare,
in quel silenzio imbarazzato, in cui la vita sembra ferma
ed i minuti durano ore,
in cui il cuore batte
lento, rassegnato
deluso, sconfortato
a tratti amareggiato.

Speranze così grandi, occhi così belli da perdercisi dentro
e volerci passare la vita,
ma così poco tempo
cosi poco
è ingiusto cosi poco,
è ingiusto troppo tardi.

E tu vorresti ma non puoi,
si ferma tutto in gola
e di li a poco,
tutto
di nuovo
tenterai di affogare
nel silenzio di una nuova notte in bianco.

Ripenserai a quegli occhi e a quello sguardo
che vorresti vedere ancora ed ancora
ed ancora
sempre.

Fuori tempo

Quand’anche i tuoi occhi
vedranno quanto i miei avranno forse scordato,
e bagneranno quelle labbra, le tue,
che piccoli morsi hanno ormai consumato,
con lacrime calde e amare,
le tue notti insonni saranno forse le mie,
vegliate al lume di un futuro sperato e mai nato.

Piccole ed insignificanti le vedrai,
le ansie del passato
al cospetto dell’errore
di un amore mai curato.

Domenica mattina

C’è qualcosa nell’aria in quelle domeniche mattina,
quando il cielo scivola via lento
e il sole scalda solo le foglie più alte.

È nella corsa di un papà che sfida il figlio,
nel passo lento di un uomo non più giovane,
ma pur sempre uomo,
che accompagna il cane.
È sulla mia panchina.

C’è la stanca noia del dovere,
in una giovane ragazza, sotto braccio ad una signora che ne ha viste tante,
o nel figlio con la madre, distanti e con le mani in tasca.

C’è la voglia di non arrendersi,
nel passo breve, appena sollevato dal terreno, di un maratoneta ormai finito,
o nell’andatura barcollante della signora – sarà almeno al terzo giro.

La musica, sì, lei c’è sempre,
nelle orecchie di un uomo a passo svelto,
nelle parole di un ragazzo che la ripete a voce alta (con un accento curioso)
nelle campane lontane quando intonano un motivo abusato,
nel curioso canto delle cornacchie e dei pappagalli, sembra quasi che gli dicano –
“E voi? Voi che fate qui?”,
nel tubare dei piccioni e dei colombi.

E poi un bambino che corre in mezzo agli uccelli e li fa fuggire,
un altro che chiede al padre di spiegargli la vita,
il lento passo sincrono delle coppie, vicine o lontane,
giovani o anziane,
e quello veloce di chi non si interessa a guardare quanto mondo c’è intorno.

E c’è Lui.

Può un alito di vento spingere più forte il cuore?
Basta davvero così poco?

Note sparse di una mattina di gennaio

Non bastano la quiete d’una mattina di gennaio
ed i tiepidi raggi di un sole fuori tempo
a scogliere il pensiero di te.

Una vecchia fontana
segnata dall’incuria del tempo e da mani d’autori precoci
esala gli ultimi respiri.
Rigagnoli d’acqua, gocce sparse,
scendono,
si ritrovano a valle,
laddove un tempo, cadendo,
avrebbero trovato maggiore compagnia,
causato più intenso fragore.

Grida non troppo lontane di bambini festanti,
risvegliano ricordi sopiti di quando anch’io, bambino
stringevo la sua mano callosa, sempre dolce,
e riempivo svelto un sacchetto di nocchie.
O quando sulle sue spalle, mi sentivo un gigante, forte,
ed il mondo piccolo piccolo.

Ho gli occhi umidi adesso.
Fanno sempre così i ricordi,
seducono col richiamo della felicità e poi pugnalano alle spalle,
amari.
Che sia una gara con la vecchia fontana, mi dico – potrei vincere facilmente, oggi.

Mentre una vecchia canzone va, il pensiero vola subito altrove,
come l’aereo che passa alto in cielo, lasciando dietro sè una bianca scia.
Irrequieta, la mente passa in rassegna ricordi recenti,
cerca sollievo ma crea turbamento
ricorda uno sguardo, un sorriso, un abbraccio rubato,
una mano su una spalla.

Non ha senso – dice.
Quando mai lo avrà? – ribatte.
Forse oggi stesso, forse mai. Non è forse questo il punto?

Ne esco per qualche minuto, leggo due righe d’una poesia che un tempo mi colpì, oggi un po’ m’annoia.
Poi lo sguardo di un passante, Saeed,
che mi chiede una sigaretta, mi stringe la mano, mi dice “lavoro”,
mi rimanda giù.
Ha gli occhi tristi, Saeed, ha sofferto e chiede lavoro.
In realtà cerca la felicità, come me. La pace, come me.
Ma chi ti paga per essere felice, Saeed?
Chissà quante ne ha passate.

Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l’ho ancora detto.

Ancora mi piace.

Mancanze presenti.

Mi manca
ogni tua forma imperfetta
e quanto di mio ho lasciato sulle tue labbra
al cospetto dei tuoi sguardi severi.

Ingiustamente pretendo
l’impossibile stasi del tuo essere.
Parzialmente distruggo
ogni tua manchevolezza nei nostri confronti.
Involontariamente tralascio
ogni colpa figlia del mio arrancare nel mondo.
Mi chiedo da tempo
se il treno che m’ha portato qui
non fosse pieno di false parole
tanto che ho quasi paura
di salirci di nuovo.

È nato già grande,
con rughe da vecchio
e sogni di fanciullo,
l’amore che mostrammo al mondo
con indosso l’abito della festa
ed al polso un orologio d’inchiostro blu.

The spot on the door.

Come ferro
su calamita
inesorabile
scalcia
ogni tua parte
rifugiata nel mio punto più caldo
alla fugace visione
della curva del tuo collo
meta passata delle mie labbra
confusione presente delle mie mani
piacere
senza tempo
per la vista.
Ancora qualche giro
per le lancette della mia sicurezza
prima che sia di nuovo ora
minuto
secondo
per la felicità.

St. Augustine

Vivi nei miei occhi
nell’inutile vociare del mondo
che baratterei volentieri
con un tuo singolo respiro
sulle mie labbra.
Incantato
da melodie ritrovate
quasi per caso
o forse grazie al fato
nella criniera d’un purosangue,
quando il sole è ormai sopito
e le stelle giocano a scacchi
mi perdo dentro di me
su una barca rossa
coi remi ancora asciutti
gli ormeggi ormai tirati
e la dispensa quasi vuota.
Babordo o tribordo
non è quello che m’interessa
mentre mi specchio
e sistemo la divisa da mozzo
guardando la tua foto
appesa dove la cornice forma un angolo.
Il mare è calmo
fuori dagli oblò
e sembra che salperemo
poco prima che faccia giorno
o anno
nuovo.

Sottofondo: Band of horses – The Great Salt Lake

Disintegration

Le mie pupille
tiranne
costringono le mie palpebre
a rimanere aperte
con il dolceamaro ricatto
della tua immagine.
Neppure note di sogno
ed atmosfere di neve
placano il mio cuore
ora che la mia bussola
s’è rotta del tutto
conficcando
il suo ago
appuntito
nel mio nord più profondo.
Ho tutti i sintomi, sai
dell’ubriachezza da Vita andata a male.
Barcollo
costantemente
mentre tento di capire
se muovere prima il destro o il sinistro,
devasto
tavole imbandite
con i miei cibi preferiti
nel tentativo di riempire il mio piatto.
Alterno
lucidità confusa
a pessimismo convinto
mentre sento le mie spalle curvarsi
sotto il peso del macigno che porto
gentile omaggio
di una cava dell’inadeguatezza
e di operai tutti con lo stesso nome
Insofferenza
marchiato nelle ossa.
Mi fiderei di Futuro
se solo non temessi che crescendo
diventi l’ennesimo Passato
di cui avrei fatto a meno.

Sottofondo: The Cure – Untitled

13 Ottobre

Passeggio
nella valle dell’insensatezza
mentre la ragione prova a spingermi via
sopraffatta dalla più profonda incertezza
che mi tira a sé.
Cos’è stato?
Cos’è?
Mi conforta
il relativo disinteresse
verso il futuro,
mentre sanguino
nel contingente
trafitto dal Dubbio,
cane da guardia dell’Inconsapevolezza.
Forse è troppo
per un cuore
abituato a correre
coi sassolini nelle scarpe
ma non troppo adatto a volare.
Vorrei per me
l’armonia della musica
di cui sono schiavo fedele,
il suo regolare divenire
in battere e levare,
il suo trasformarsi in blue note
e poi riprendersi
senza che nessuno possa opporsi
o voglia lamentarsi.

Come regalo di Natale
un cuore di spugna
che se lo strizzi va via tutto.
Ed un corso di chitarra,
forse la risposta è nel bending.

Sottofondo: The Album Leaf – Always for you