Riorganizzare i ricordi

La pioggia lenta, fina
di una giornata uggiosa di mezz’inverno
ammorbidisce e rimesta i ricordi.

L’accarezzarsi delle mani,
i corpi protesi in avanti, quasi dolcemente avvinghiati
di quella coppia che vedemmo,
per cui immaginammo accenti stranieri
e poi ridemmo, scoprendolo come il nostro.

Ricordi il rossore nelle gote di lei?
Quel dolce imbarazzo, prima cercato e di lì a poco scacciato?
Fui solo io a desiderare fosse uno specchio?

Passano i giorni,
interi di parole taciute
soppresse nell’eco dei nostri silenzi,
rimpiazzate da frivoli scampoli di conversazioni gettate lì un po’ a casaccio,
quasi temendo che quel sottile filo che ci lega possa spezzarsi,
se non minimamente alimentato.

E poi girare fra i mercatini cercando un regalo,
correndo con lo sguardo da una parte all’altra,
immaginando non tanto quale sia il migliore
ma quale il più giusto.
Vederli tutti, apprezzarne pochi
per non sceglierne neppure uno,
frenato dal timore che dica troppo, troppo presto.

Fermarsi davanti alla vetrina di una gioielleria,
immaginarti con quella collana di pietre colorate,
della stessa luce del il tuo sorriso migliore
lasciando che la fantasia mi porti a giorni mai scritti,
ma profondamente desiderati.

Ah, il desiderio!
Macigno nel fiume della vita,
che per quanto grande,
raramente ne modifica il corso.

Domenica mattina

C’è qualcosa nell’aria in quelle domeniche mattina,
quando il cielo scivola via lento
e il sole scalda solo le foglie più alte.

È nella corsa di un papà che sfida il figlio,
nel passo lento di un uomo non più giovane,
ma pur sempre uomo,
che accompagna il cane.
È sulla mia panchina.

C’è la stanca noia del dovere,
in una giovane ragazza, sotto braccio ad una signora che ne ha viste tante,
o nel figlio con la madre, distanti e con le mani in tasca.

C’è la voglia di non arrendersi,
nel passo breve, appena sollevato dal terreno, di un maratoneta ormai finito,
o nell’andatura barcollante della signora – sarà almeno al terzo giro.

La musica, sì, lei c’è sempre,
nelle orecchie di un uomo a passo svelto,
nelle parole di un ragazzo che la ripete a voce alta (con un accento curioso)
nelle campane lontane quando intonano un motivo abusato,
nel curioso canto delle cornacchie e dei pappagalli, sembra quasi che gli dicano –
“E voi? Voi che fate qui?”,
nel tubare dei piccioni e dei colombi.

E poi un bambino che corre in mezzo agli uccelli e li fa fuggire,
un altro che chiede al padre di spiegargli la vita,
il lento passo sincrono delle coppie, vicine o lontane,
giovani o anziane,
e quello veloce di chi non si interessa a guardare quanto mondo c’è intorno.

E c’è Lui.

Può un alito di vento spingere più forte il cuore?
Basta davvero così poco?

Note sparse di una mattina di gennaio

Non bastano la quiete d’una mattina di gennaio
ed i tiepidi raggi di un sole fuori tempo
a scogliere il pensiero di te.

Una vecchia fontana
segnata dall’incuria del tempo e da mani d’autori precoci
esala gli ultimi respiri.
Rigagnoli d’acqua, gocce sparse,
scendono,
si ritrovano a valle,
laddove un tempo, cadendo,
avrebbero trovato maggiore compagnia,
causato più intenso fragore.

Grida non troppo lontane di bambini festanti,
risvegliano ricordi sopiti di quando anch’io, bambino
stringevo la sua mano callosa, sempre dolce,
e riempivo svelto un sacchetto di nocchie.
O quando sulle sue spalle, mi sentivo un gigante, forte,
ed il mondo piccolo piccolo.

Ho gli occhi umidi adesso.
Fanno sempre così i ricordi,
seducono col richiamo della felicità e poi pugnalano alle spalle,
amari.
Che sia una gara con la vecchia fontana, mi dico – potrei vincere facilmente, oggi.

Mentre una vecchia canzone va, il pensiero vola subito altrove,
come l’aereo che passa alto in cielo, lasciando dietro sè una bianca scia.
Irrequieta, la mente passa in rassegna ricordi recenti,
cerca sollievo ma crea turbamento
ricorda uno sguardo, un sorriso, un abbraccio rubato,
una mano su una spalla.

Non ha senso – dice.
Quando mai lo avrà? – ribatte.
Forse oggi stesso, forse mai. Non è forse questo il punto?

Ne esco per qualche minuto, leggo due righe d’una poesia che un tempo mi colpì, oggi un po’ m’annoia.
Poi lo sguardo di un passante, Saeed,
che mi chiede una sigaretta, mi stringe la mano, mi dice “lavoro”,
mi rimanda giù.
Ha gli occhi tristi, Saeed, ha sofferto e chiede lavoro.
In realtà cerca la felicità, come me. La pace, come me.
Ma chi ti paga per essere felice, Saeed?
Chissà quante ne ha passate.

Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l’ho ancora detto.

Ancora mi piace.

Disintegration

Le mie pupille
tiranne
costringono le mie palpebre
a rimanere aperte
con il dolceamaro ricatto
della tua immagine.
Neppure note di sogno
ed atmosfere di neve
placano il mio cuore
ora che la mia bussola
s’è rotta del tutto
conficcando
il suo ago
appuntito
nel mio nord più profondo.
Ho tutti i sintomi, sai
dell’ubriachezza da Vita andata a male.
Barcollo
costantemente
mentre tento di capire
se muovere prima il destro o il sinistro,
devasto
tavole imbandite
con i miei cibi preferiti
nel tentativo di riempire il mio piatto.
Alterno
lucidità confusa
a pessimismo convinto
mentre sento le mie spalle curvarsi
sotto il peso del macigno che porto
gentile omaggio
di una cava dell’inadeguatezza
e di operai tutti con lo stesso nome
Insofferenza
marchiato nelle ossa.
Mi fiderei di Futuro
se solo non temessi che crescendo
diventi l’ennesimo Passato
di cui avrei fatto a meno.

Sottofondo: The Cure – Untitled

Talkin’ souls.

Annego
nella magnificenza
d’una canzone
che altro non è
se non lo scorrere dei miei
pensieri.

L’insoddisfazione
risiede qui.
Ha piantato la sua tenda
subito dopo quella dell’inadeguatezza
alle spalle del castello che ho costruito
per nascondere al mondo
il tuo sorriso
e le poche cose belle
che avevo in valigia.
Era tutto più facile
fra le tue braccia
mentre mi drogavo
alla sorgente della sicurezza.
Sto ancora imparando
a volare
ma sull’orlo del burrone
il tempo è tiranno
ed ho quasi finito i rami
a cui aggrapparmi.

Mi infastidisce
l’inappropriatezza
dell’uomo.
Sono stanco dei locali
per non fumatori,
vorrei che nel mio mondo
tutti girassero con dei fiammiferi
per bruciare l’idiozia.

Quasi ti invido,
Morte,
che non devi vivere.

Sottofondo: Pink Floyd – Wish you were here

Inghiottite
dalla fioca luce
d’una notte d’estate
cadono
speranze vane
d’immaginati amori
e vaghi
riaffiorano
pensieri scalzi
temendo di risvegliare
col loro passo pesante
nostalgie sepolte
mai completamente morte.

La dolce brezza
anche se calda
è carezza di violino
sui miei pensieri bianchi e neri
che indugiano sulle tue mani
perfette anch’esse
in armonia totale
con il resto di te.

Vorrei di nuovo
perdermi
nell’abbraccio dei tuoi occhi
per ricordare
che profumo ha
la felicità
e goderne di nuovo
anche solo per un secondo.

Noi,
fottuti pedoni
d’una scacchiera infinita,
ignari soldati
di una guerra mai voluta,
siamo segnati
come il tabacco che brucia
nelle nostre siringhe di carta.

Non vincerai mai
una partita a carte
con il Destino,
neppure barando
potresti.